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La povertà apre alla chiamata di Dio: l'esperienza di Mosè

Prendiamo il secondo capitolo del libro dell'Esodo, ai vv. 11- 22. Abbiamo visto che Mosè è stato salvato, anzi tratto dalle acque dalla figlia del Faraone. Il nome Mosè, viene dal verbo ebraico, mashah, che significa “tirar fuori”. Egli è tratto fuori dal Faraone. Egli sarà proprio colui che trarrà fuori Israele dalle acque del mar Rosso.

Siamo davanti all’ironia di Dio: permette che Mosè venga salvato dalla figlia del Faraone che è considerato figlio della divinità, per poter salvare dalle acque Israele dalla prepotenza del Faraone.

Ma è necessario che Mosè attraversi un periodo di deserto per essere mediatore di Israele. Prima di essere condottiero del popolo oppresso e straniero, deve fare lui stesso esperienza di povertà, di essere perseguitato.

Nel v. 11 leggiamo che Mosè è cresciuto in età. Negli At 7,22 si riporta la tradizione ebraica secondo cui Mosè è stato “educato in tutta la sapienza degli Egiziani”. Formato alla corte del Faraone, ha una mentalità di dominatore, di essere re, di essere liberatore. Infatti quando vede la situazione di oppressione esercitata dagli egiziani nei confronti degli ebrei, Mosè si irrita. Coglie l’occasione di uccidere un egiziano che aveva colpito un ebreo. Mosè lo uccide di nascosto, convinto di agire in nome della giustizia.

Davanti alla domanda di un ebreo: «Chi ti ha costituito capo e giudice su di noi?», Mosè prova paura. Sa che il suo sogno di essere liberatore, capo e giudice non viene accolto e né tanto meno riceve il plauso del Faraone che vuole vendicarsi.

mose2Allora Mosè si dà alla fuga. Cammina nel deserto. Fa esperienza di umiliazione e di povertà. I suoi grandi sogni di essere liberatore e giudice crollano miseramente. È uno straniero e povero nella terra di Madian.

Non manca la provvidenza divina: viene accolto dal sacerdote di Madian. Si sposa con la figlia del sacerdote, avrà un figlio chiamato: Gersom che significa “Straniero qui”.

Mosè da egiziano viene assimilato ai suoi fratelli ebrei, come loro è: emigrato, emarginato, senza progetti grandiosi di liberazione.

Questa esperienza di povertà lo apre alla chiamata di Dio. Deve essere spogliato affinché diventi servo obbediente di Dio che lo chiamerà a essere mediatore di Israele.

Noi se vogliamo amare i poveri, dobbiamo conoscere le nostre povertà. Non possiamo perdonare se non siamo perdonati. Non possiamo amare se non siamo amati. Non possiamo stimare se non siamo stimati. Non possiamo sanare se non siamo sanati. Tutto da Dio.

Quando attraversiamo le nostre povertà spirituali e umane e ci lasciamo arricchire e amare da Dio allora saremo le mani tese di Maria «verso le povertà dei fratelli e delle sorelle e porteremo il balsamo della consolazione» (Caritas sine modo, Regola di vita dei frati e delle suore di Maria).